La lettera

Ciao Matteo,

ti scrivo da un salotto non mio. Un salotto buono e privato, distante due ore di alta velocità da Bologna e otto anni da via Zanardi. È un salotto romano di periferia con un parco antistante e il centro anziani che a metà pomeriggio si anima e balla: alle volte con l’orchestrina che suona e alle volte con quello che è un dj ma chiamarlo dj per anziani fa un po’ strano.

Ti scrivo da qui perché fino a qui ci siamo arrivati assieme, anche se tu sei a Bologna e nello studio chi comanda sono ancora tre cani e un gatto.

Devo confessarti di aver cominciato così alla larga perché ho un po’ paura di cambiare, di diventare grande, di non restare ingenuo a sufficienza, di non vedere abbastanza mondo, di perdere qualcosa per strada. Perché non si scende al volo dall’alta velocità e forse non si scende al volo neanche da noi 6. E mentre il mondo si domanda come si faccia a decidere cosa è giusto e cosa non lo è per me –per noi- resta sempre la fatica e l’incertezza di aver fatto la scelta giusta, ogni giorno e ogni volta la scelta giusta.

Io questo mestiere forse non lo volevo manco fare perché non mi ci sapevo proprio comportare con le persone, con gli altri davanti che ti ascoltano e ti guardano in faccia. Mi è sempre piaciuta la radio perché sei un po’ solo con te stesso o con gli altri con cui condividi lo spazio in quel momento. Lo spettatore sta da un’altra parte e puoi quasi far finta che non ci sia. Non pensavo di poter incidere dei dischi e suonare in giro, facendolo con la continuità necessaria da poter usare la parola carriera. Ora.

Quello di cui mi sono persuaso –probabilmente sbagliando- in questi anni è che se avessimo avuto la capacità di prevederlo non l’avremmo fatto, mentre abbiamo avuto la fortuna e la capacità di immaginarlo e l’immaginazione, come tale, è imponderabile e indefinita, l’immaginazione ad un certo momento si adatta alla realtà giustificandola, rendendola a sua volta accettabile e gradevole. Per me il punto di svolta è stato non avere mai avuto un punto di svolta: non aver mai vissuto per un momento l’atrocità dello smettere di chiedermi domani come potrebbe essere stare assieme.

Penso che tutti questi anni di sforzi abbiano fatto bene ma penso altrettanto che non ci si deve mai -per nulla al mondo- sedere sulla propria esperienza, pensando che d’improvviso possa diventare una bussola. Nel momento in cui ho percepito di poter avere una bussola chiara su alcuni aspetti della vita ho pensato di dovermi allontanare un po’ da quelli che erano percorsi che avevo già battuto, facendo quello che abbiamo sempre fatto: tentare una strada nostra.

Mentre scrivevo mi è tornata in mente una canzone di Riccardo Sinigallia che si intitola Amici nel tempo ma il testo, molto bello, non è adatto alle cose che volevo dire. Mi limiterò a trattenere solo il titolo che mi sembra riassumere molto meglio delle ultime 500 parole quello che volevo dire.

Questa è l’ultima frase della lettera, tanto ci sentiamo dopo.

Lo Stato Sociale